Amelia Acca


se riuscissi a scrivere

se riuscissi a scrivere la poesia d'amore più semplice del mondo, le parole dovrebbero passare da un'asola, un po' come quel cammello che da millenni cerca di infilarsi nella cruna dell'ago, e penso che dovrei scriverla a febbraio perché febbraio è un mese un po' snobbato da chi scopre l'amore, non come l'evocativo maggio o il definitivo dicembre, ed anche che mi verrebbe da scriverla tra le masserizie e le chincaglierie inutili della cucina - uno stampino da budino, una tazzina finto cinese - paragonando l'amore a qualche impasto, al manico mezzo fuso della caffettiera, al barattolo del pangrattato.
immagino che sarebbe scritta a matita in modo che si consumi tutta perché non serve a niente una poesia d'amore che non si temperi, che non si divori fino in fondo, come l'ultima briciola di una cosa buona da mangiare e che, trascrivendola, per l'emozione scapperebbero dei refusi, errori grammaticali, e mi concederei qualche scopiazzatura di verso, come per esempio alto è il muro che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga all'infinito, per sollevarle il tono un po' dimesso mentre tralascerei la metrica e le rilascerei almeno due licenze, la protesi e la sincope, ma solo perché la poesia più semplice del mondo avrebbe bisogno di cure speciali.
poi credo che se dovessi scrivere la poesia più semplice del mondo dovrei tenermela in tasca per parecchio perché le tasche per le poesie d'amore sono come le cantine per il vino e non dovrei metterle fretta mentre recupera tutti i profumi che aveva già quando era appena un grappolo. ed anche se è la poesia d'amore più semplice del mondo, per lei consulterei il vocabolario, un cartografo, anche l'oracolo se servisse, e poi un carpentiere, un esperto di barche e uno di botanica, per non parlare del cuoco o di un bruco.
anche nella poesia d'amore più semplice del mondo alla fine forse dovrei rassegnarmi a descrivere questo benedetto amore e allora diventerei un po' silenziosa e dopo averci pensato, non poco, non poco, direi, senza voler aver ragione, che l'amore è un crampo.
punto.



  


aestella

vorrei che questa lettera ti arrivasse un mercoledì.
non sai la grazia con la quale le lettere del mercoledì aspettano la mano che le prenderà, le soppeserà appena, le girerà dove è scritto l'indirizzo per vedere se è proprio il tuo nome quel nome, se è stato scritto in fretta, occupando poco o molto spazio, se sul davanti ci sia un indizio di chi l'ha spedita o, meglio, se si porti appresso un odore stagionale, se sia un poco ondulata da scrosci di pioggia o ancora croccante di sole.
aestella,
come sempre ti scrivo da un tempo siderale e non passa giorno che non pensi a un dio ordinato come una serva all'ora di pranzo che predispone per noi un rettangolo esatto di cielo sotto il quale combinare qualcosa di decente.
per quanto mi riguarda, a parte le due tre cose che sai essere di mia abitudine, trovo molta indecenza nel fondo dei miei occhi quando mi viene il pensiero di te,
e gli occhi sono come zolfo bello secco e poi due fiammelle, e mi ritrovo a parlarti, a rispondere a domande che non mi hai mai fatto e soprattutto a ripetere parole d'amore vecchie, perché tutte le parole d'amore sono vecchie più del mondo stesso prima che venissimo al mondo, prima che ci venisse affidato un rettangolo di cielo incolore.
è ottobre inoltrato, qui, aestella ed è il mese delle cose rotte: il piatto del buon ricordo di roma è in quattro pezzi ed è diventato per me un tangram irrosolvibile, il principino ha perso un piede e la sua babuccia damascata, il mulino ha una pala spezzata, il campanile bianco la punta sbeccata.
anch'io ho problemi ai piedi, aestella.
piccole punte di spillo mi trapassano i calcagni quando vado a letto per i mille passi da millepiede che compio ogni giorno lungo i lati del rettangolo di questo cielo che non matura più i suoi frutti.
 ieri notte i piedi doloranti mi hanno seguita fin dentro al sogno e mio padre era una specie di calzolaio che mi mostrava un campionario di scarpe e me ne regalava un paio dall'aria duratura, in buona pelle nera con cuciture forti, e mentre allungava il braccio mi diceva
hai proprio bisogno di scarpe nuove
sicché mi guardavo i piedi con gli aghi sotto e scoprivo che erano nudi.
aestella, siamo tutti scalzi in questo spazio siderale.
tutti in debito di scarpe da un padre, da una madre che preghiamo ci insegnino come stare in piedi fino a cent'anni. dicono che le scarpe siano la prima cosa che si sfila dal nostro corpo quando si muore e non l'anima come ci piace pensare, come si trattasse di un canarino che dal troppo entusiasmo sbatte sulle finestre chiuse. confonde un rettangolo di cielo con il cielo stesso.
per me non devi preoccuparti, so bene come buttarmi alle spalle gli inganni, quanto attendere perché le colpe appaiano modesti peccatucci e, come sai, anche come percorrere il perimetro per distrarre quel dio dispensatore di limiti.
la mia unica possibilità, aestella, è andare,
andare e andare
al cuore delle cose,
nel cuore delle cose.
è una speranza da ergastolano, lo so, ma per ora non ho altro a questi piedi che i miei piedi stessi.
 

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